di Giorgio Bicocchi
Non avrebbe dubbi Antonio Buccioni, il Presidente della Società Sportiva Lazio, uno che conosce il mondo Laziale più dei proprio avi, nel rispondere alla domanda su chi sia l’atleta, dal 1900 ad oggi, a cui sia maggiormente romanticamente legato, anche senza averlo frequentato. Vi risponderebbe, senza remore, con due semplici parole: “Ezio Sclavi”. Sclavi – nato il 23 marzo 1903 – non soltanto ha inaugurato la formidabile stirpe di portieri di cui la Lazio si è fregiata nel corso della propria storia. E’ stato soprattutto il baliardo, il capitano, il Totem, l’uomo più carismatico, quello che condensava l’esempio, il senso di appartenenza, il coraggio.
C’era lui alla Stazione Termini, nel 1933, ad accompagnare per mano i pulcini Laziali che sarebbero partiti di lì a poco, in treno, alla volta di Vienna, invitati al Prater per una esibizione con i pari età del Wacker. Sclavi era alla testa dell’intera prima squadra: perché la Lazio era una famiglia (così la intendeva Vaccaro) ed era opportuno che i giocatori più navigati infondessero coraggio e dedizione ai più piccoli, quelli che sarebbero diventati i Laziali del domani. Dopo essersi guadagnati applausi e consensi a Vienna, c’era ancora Ezio Sclavi ad accogliere i ragazzi al ritorno, dando ad ognuno di essi una pacca e un abbraccio.
Legatissimo ai Laziali più piccoli (per loro Ezio era una esempio), Sclavi era solito ospitarli spesso nella lussuosa auto che, complice i primi stipendi, si era comprato. Molte le foto che ritraggono il portiere e i giovani calciatori, tutti stretti e felici sulla berlina. Oggi il Centro Studi presenta invece una istantanea del 1935 in cui Sclavi regala una dedica all’ex compagno di squadra Francesco Gabriotti (che avrebbe vinto l’anno dopo, assieme all’altro Laziale Baldo, la medaglia d’oro ai Giochi di Berlino), ulteriore esempio di come il portiere, generosissimo, tenesse ai rapporti e alle amicizie consolidate.
Sclavi, tesserato dalla Lazio nel 1923, restò fino al ’35, al netto di una stagione giocata con la Juve nel ’25. Il numero di partite da lui giocate in quel decennio? Oltre duecentocinquanta, anche se il dato mai ha assunto il crisma dell’ufficialità. A lui sono legate pagine di un calcio che non c’è più: come quella volta ad Alessandria in cui, per ben due volte, venne colpito prima dietro l’orecchio e poi al mento da un avversario, rifiutandosi di uscire per non lasciare la squadra da sola. Coraggio, carattere. E pure orgoglio. Quando si infortunò gravemente al ginocchio e la Lazio optò per il portiere Blason, partì – per un senso di rivalsa e di delusione – per l’Etiopia, continuando a giocare (anche da attaccante) per le squadre del paese allora colonizzato.
Quanto servirebbe alla Lazio di oggi, ottant’anni dopo, una figura leggendaria come la sua! Impossibilitati a riciclarlo ai giorni d’oggi, ci dobbiamo accontentare di riviverlo di tanto in tanto. Presentando la sua figura e la sua militanza tutta d’un pezzo a chi, pur tifoso Laziale, ignora la sua parabola alla Rondinella. Come oggi, anniversario della sua nascita…