di Giorgio Bicocchi
La vita di una società di calcio, come di ogni persona, è fatta di istanti, che possono prendere una piega come un’altra. A Giuliano Fiorini il destino fece recapitare tra i piedi il gol che cambiò il corso delle cose o, meglio ancora, la storia della Lazio.
Quel suo gol di rapina, segnato sotto un cielo carico di umidità, in un Olimpico in cui non entrava più uno spillo tanto era gremito, orientò, di lì a qualche anno, il destino, conducendo la Lazio ad essere, per diverso tempo, classifiche alla mano, il club più forte al mondo.
Ventuno giugno dell’87: Fiorini, sotto la curva Nord, fa resuscitare, con una prodezza, la Lazio e il suo popolo. Senza quello squillo rabbioso contro il Vicenza si sarebbero aperte le porte della serie C. Calleri non avrebbe completato il risanamento. Cragnotti non si sarebbe manifestato, restando a fare il capitano d’industria, tra l’Italia e il Sudamerica. Non sarebbe nata la grande Lazio, capace di vincere uno scudetto e uno stuolo di Coppe, in Italia e all’estero. Non saremmo saliti fino a Birmingham per prenderci la Coppa delle Coppe. Né a Montecarlo, alla fine dell’estate, battendo i campionissimi del Manchester. Nulla, senza la prodezza di Giuliano Fiorini, sarebbe stato più tale. Ecco perché il biennio trascorso a Tor di Quinto da questo zingaro del pallone, capace, in carriera, di salire e scendere continuamente lo Stivale, senza mai fermarsi, merita un ideale piedistallo nel cuore di ogni laziale. Al pari di quel filmato – mozzafiato – che lo ritrae denudato e senza più una stilla di energia mentre guadagna gli spogliatoi dell’Olimpico, già in mente i successivi spareggi di Napoli.
Cinquanta presenze con la nostra maglia, dieci reti. Di cui una, che mai potrà evaporare nella nostra storia. Giuliano era un ragazzo buonissimo: non è un caso che, da quando se ne è andato ingiustamente, un pomeriggio d’estate, tutti coloro che hanno condiviso con lui mille avventure in A, B o C, difendendo decine di colori, si radunino a Bologna per commemorarlo. Perché Giuliano, in un gruppo, era quello che condensava gli umori. Paziente coi più giovani. Il gusto della battuta. L’arte di sdrammatizzare o di caricare l’attesa. Furono lui e Fascetti a convincere il resto della squadra a restare e a provarci quando la giustizia sportiva trasformò la retrocessione a tavolino in serie C in un diabolico -9. Avrebbe meritato di restare alla Lazio chissà quanto tempo, “Bomber Fiorini”. Come il vento, che tutto squassa e porta via, decise di andarsene, seguendo poi da lontano, prima in campo e poi nella tabaccheria di Bologna, i successi a ripetizione della Lazio. Quelli che lui, contro tutto e tutti, in quel giorno di giugno, quando gli spettri ci avevano già avvolto, decise di orientare.