di Giorgio Bicocchi
Il precampionato, stavolta, è pieno di suggestioni. La Lazio vive una sorta di età dell’oro, coincidente con l’avvento alla presidenza dell’imprenditore Eugenio Gualdi. È una stagione di speranze, di auspici che cancella, d’incanto, anni di aurea mediocrità. La Lazio è viva, vitale, stravolge il suo telaio, si rafforza, reclamando attenzioni, gettando il guanto di sfida alle corazzate del Nord.
Chi è quel centravanti che colora l’estate, segnando a raffica? Si chiama Silvio Piola e la storia dirà che è un predestinato. Ha ventuno anni, vive a Vercelli, la famiglia commercia in tessuti. Ha iniziato ad incantare, da piccolo, sui ciottoli di piazza Cavour. La Lazio, prima dell’era-Gualdi, affrontava quelle trasferte con l’animo sempre inquieto. La Pro Vercelli, poi, era una istituzione. Più volte Campione d’Italia, incarnava i valori semplici della provincia. I suoi trionfi erano commentati nelle officine, nelle risaie, sui sentieri di campagna.
Vercelli era lo scrigno di Piola: qui, una domenica, aveva segnato sei reti alla Fiorentina, tutte con procedure diverse, variegate, cavalcando, coi fatti, le prime pagine dei giornali. Piola segna, convince: è, in prospettiva, il centravanti più forte in Italia. Sicuro, c’è ancora Meazza ma Piola, in un’ottica futura, è lì, pronto a sostituirlo degnamente. Gualdi alza la mira: la Lazio compra, soprattutto investe. Soldi pesanti, veri: alla fine di quell’estate il forziere laziale si svuoterà di oltre settecentomila lire. Più di un terzo della somma viene dirottata alla Pro Vercelli per ingaggiare Piola. È un negoziato-fiume, difficile. La Lazio muove con oculatezza le sue trame, spedendo plenipotenziari anche in Piemonte. Della vicenda vengono interessati anche il Generale Vaccaro, all’epoca segretario generale del Coni e presidente della Federazione, e il segretario del partito fascista, Marinelli. Sono due laziali dichiarati, scaltri e potenti. Studiano una strategia e trovano una soluzione. Piola è militare, deve essere trasferito alla Farnesina e così il trasferimento alla Lazio è presto ratificato.
Agosto del ’34: è il mese in cui Silvio entra a far parte della famiglia laziale, finalmente tesserato. E’ l’inizio dell’epopea, contraddistinta da gol, prodezze, sigilli, momenti di grandissimo calcio e umanità.
Roma, all’epoca, vanta un milione e mezzo di abitanti. Il corrispettivo versato dalla Lazio alla Pro Vercelli (poco più di duecentomila lire) è l’equivalente di dieci Balilla Fiat o di dieci anni di stipendio di un funzionario dello Stato. Piola firma un contratto da cinquemila lire al mese: è un nababbo, che però mai sperpererà il denaro guadagnato. La rovesciata è il suo marchio di fabbrica: Silvio si avvita e scaraventa autentiche folgori alle spalle dei portieri. Un centravanti difficilissimo da arginare: predilige giocare spalle alla porta (una novità per l’epoca), svariando lungo tutto il fronte d’attacco. Possiede un fisico da corazziere, le gambe sono un fascio di nervi. Calcia in porta con disarmante disinvoltura. E in area, quando spiove la palla, è un autentico martello.
La trattoria di via Frattina, a due passi dalla sede, diventerà uno dei suoi nidi. Silvio è affabile, gentile. Un campione, in campo e fuori. Un esempio di signorilità. Mai una parola fuori posto. Col tempo diventerà un cacciatore. Di allodole, soprattutto. Accade, allora, che Bruno e Vittorio Mussolini, tifosi laziali, lo invitino sovente nella tenuta di Castelporziano per andare tutti assieme a caccia.
La Lazio vive di luce riflessa, finalmente felice di aver trovato il suo cavaliere. Era una Lazio, quella di quegli anni, molto distinta e Piola ne incarnava l’essenza. Centravanti, capitano, personaggio carismatico. Alla fine della sua avventura laziale i gol realizzati solo in campionato saranno 143. Un record inattaccabile, ad oggi, che colloca Piola tra i più grandi pionieri della società.
Due volte capocannoniere, nei campionati 1936-37 e 1942-43, entrambe le volte con ventuno reti. Con un rimpianto grande così: mai festeggiò il trionfo di uno scudetto. Nella Pro Vercelli, nella Lazio, nel Torino, nella Juve, nel Novara, le squadre in cui militò: una sorta di anatema, bizzarro e misterioso. Bastava vederlo in campo, Piola, per incutere terrore negli avversari. Gennaio del ’39, si attraversa mezza città per andare a giocare a Testaccio. È uno di quei derby che sembrano segnati in partenza, la vigilia della Lazio è squassata da una forma di influenza che mette ko mezza squadra. Doveva essere un supplizio, finisce, invece, in un trionfo, come spesso è accaduto nelle vicende ultracentenarie del club. La Lazio passa a Testaccio con reti di Zaccone e Busani e Piola è il formidabile artefice del pomeriggio. Gioca a tutto campo, rincuora i compagni: è un esempio. Grazie a lui, soprattutto, Testaccio è espugnato.
Silvio diventa lo spauracchio dei dirimpettai: è schivo, riservato ma il derby lo accende, lo carica. Ormai, in patria, con le prodezze confezionate per il bis mondiale del ’38, è un mito. Indossa le scarpe da gioco, si aggiusta la maglia, guarda negli occhi gli avversari ed è come se Lazio fosse già in vantaggio. Il 16 marzo del ’41 Piola entra nella leggenda e nell’immaginario dei tifosi. Si disputa il derby e dopo pochi minuti di gioco – al termine di uno scontro con Acerbi – Silvio crolla a terra col viso insanguinato. Ha una ferita di quattro centimetri sulla fronte. Gli applicano i punti di sutura, lo bendano mentre Piola intima ai medici di fare presto, tanto è grande la voglia di tornare in campo. Dopo dieci minuti il portiere Masetti sbaglia l’uscita e Piola, incurante della ferita, incorna di testa, siglando il vantaggio. L’urlo di gioia è soffocato da un calore improvviso: la ferita si è riaperta e la benda è intrisa di sangue. Negli spogliatoi, alla fine del primo tempo, il medico sociale Bani sconsiglia Piola dal ripresentarsi in campo. Macchè, replica Silvio, pronto ad autografare la stracittadina alla sua maniera. Cos’era, un impeto di follia? Semplicemente coraggio. Piola torna in campo menomato ed è come se i compagni ricevessero una ondata supplementare di energie.
Eccolo, l’epilogo di quel derby leggendario: Vettraino è un furetto lungo la fascia, confezionando lo spiovente che Piola addomestica e scaglia alle spalle di Masetti. È il trionfo, la Lazio vince due a zero, consegnando il proprio centravanti all’abbraccio di mezza città e all’ammirazione di un intero Paese.
Quando la guerra colpisce al cuore, Piola, al pari di tanti compagni, risale l’Italia insanguinata per tornare a Vercelli, decidendo poi di giocare per il Torino. Ancora di proprietà della Lazio, Piola verrà ceduto nel 1945 alla Juventus, per un milione e seicentomila lire. Silvio passò, infine, al Novara, che, grazie ai suoi gol, tornò in serie A. Silvio continuerà a giocare (e a stupire) fino a quaranta anni. Il legame con la Lazio resterà fortissimo: nell’ottobre del ’72 sarà all’Olimpico per premiare Giorgio Chinaglia prima di Lazio-Juventus. Nel maggio di due anni dopo festeggerà – invitato a Roma – il primo scudetto del club, quel titolo che gli sfuggì per un soffio nel ’37.
“Peccato che non hai visto giocare Piola…” dicevano i nonni, fortunati ad aver assistito dal vivo alle sue prodezze e alla sua ruggente lazialità, ai nipoti nati negli Anni Sessanta. Già, caro Silvio, per quanto eri forte e per i valori morali che trasmettevi, sarebbe stato un onore essere un tuo tifoso.