Il 19 novembre 1902, nasceva a Roma Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana di Savoia, secondogenita di Vittorio Emanuele III. Muti (come era affettuosamente soprannominata) era di indole gentile, molto legata alla famiglia e appassionata di musica e arte, oltre che di sport (praticava il tennis).
Mafalda era molto legata ai nostri colori, le piaceva molto assistere alle partite di calcio e conosceva personalmente tutti i giocatori. Il 29 gennaio 1933, nell’intervallo della partita Lazio-Bologna, le venne consegnata la personalissima tessera di Socio Onorario n. 1. Un documento unico, ancora oggi magnificamente conservato in tutto il suo splendore grazie al Presidente Generale della Società Sportiva Lazio, Antonio Buccioni. Sposata con il nobile tedesco Filippo d’Assia, ebbe quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta. Il suo calvario – poi divenuto martirio – inizia nel settembre del 1943. Alla fine di agosto, infatti, Mafalda si era recata a Sofia per confortare la sorella Giovanna che stava perdendo il marito. Durante il viaggio di ritorno in Italia, il suo treno fu fermato di notte dalla Regina Elena di Romania, la quale la implorò di non tornare a causa del grave pericolo che avrebbe corso a seguito della firma dell’armistizio dell’8 settembre. Ma Muti decise di non seguire il consiglio e di tornare dai propri figli. Dopo otto giorni di viaggio raggiunse Roma il 22 settembre, riuscendo a rivedere i figli, affidati in Vaticano alle cure di Monsignor Montini (che sarebbe poi diventato Papa Paolo VI). La mattina del 23 settembre fu convocata dal comando tedesco per un colloquio telefonico con il marito, che era in Germania. In realtà si trattò di uno stratagemma e Mafalda fu arrestata e deportata in Germania, prima a Monaco, poi a Berlino ed infine nel lager di Buchenwald, dove venne assegnata alla baracca n. 15 sotto il falso nome di Frau Von Weber, con divieto di rivelare la propria identità. Pur godendo di un trattamento migliore rispetto agli altri internati, rimase molto provata dalla prigionia; la sua grande umanità la portò comunque a cedere ai più bisognosi il poco che riceveva. Il 24 agosto 1944 le forze alleate bombardarono Buchenwald e la baracca n. 15 venne distrutta. Il suo corpo rimase ustionato e dilaniato, con un braccio quasi staccato dal resto del corpo. Dopo essere stata disseppellita dalle macerie, Mafalda fu distesa su una scala a pioli per essere trasportata nell’infermeria del campo. Nel tragitto riconobbe due Italiani dalla “I” che avevano sulla divisa, gli fece segno di avvicinarsi e gli disse: «Italiani, io muoio, ricordatevi di me non come di una principessa, ma come di una vostra sorella italiana». Venne lasciata in condizioni disperate per quattro giorni e solo il 28 agosto, dopo una lunghissima operazione, le fu amputato il braccio ormai divorato dalla cancrena, che si era estesa ovunque. Con immensa crudeltà, i Tedeschi la abbandonarono nella stanza di un postribolo senza alcuna assistenza né cura, dove morì dissanguata e tra atroci sofferenze all’alba del 29 agosto. Secondo l’opinione di un medico internato a Buchenwald, Mafalda fu intenzionalmente operata in ritardo per provocarne la morte. Il metodo delle operazioni esageratamente lunghe o ritardate era già stato applicato a Buchenwald, ed eseguito sempre dalle SS su altre personalità di cui si desiderava sbarazzarsi. Il suo corpo, grazie al prete del campo, padre Tyl, non fu cremato, ma posto in una cassa di legno e seppellito in una fossa comune, con la sola indicazione del numero 262 e la scritta “eine unbekannte Frau” (una donna sconosciuta). Solo dopo alcuni mesi, alcuni marinai italiani, liberati dai campi di concentramento nazisti, riuscirono a ritrovare il corpo della Principessa, che oggi riposa nel piccolo cimitero degli Assia, nel castello di Kronberg im Taunus vicino a Francoforte sul Meno.
Questa è la triste storia di Mafalda di Savoia, Principessa d’Assia e fervida sostenitrice della S.S. Lazio.