di Giorgio Bicocchi
Cinque partite complessive, due all’Olimpico, altrettante in Svizzera, prima della finalissima col Basilea. Squadra retrocessa ma viva. Lovati in panchina, Lorenzo allontanato. Con Maestrelli che, appena ingaggiato dal Foggia, comincia a conoscere la squadra che condurrà nuovamente in A, fino poi allo scudetto. Il nervosismo di Chinaglia: vorrebbe andarsene perché la B non lo intriga.
I primi colloqui con Tommaso. I gol di Long John, a mitraglia. Vittorie con Lugano e Winterthur. Poi la finale di Basilea, viva la Coppa delle Alpi. Con la “De Martino” che, il giorno prima, ha appena vinto lo scudetto del campionato riserve. Il ritorno a Roma, via Col di Lana in festa. Giugno del ’71, un bizzarro inizio d’estate: appena retrocessa la Lazio vince due trofei. Via la patina di polvere, torniamo indietro di quarantadue anni…
Il nocciolo era quello: ripartire, se possibile, da Long John. Provare a coinvolgerlo nel nuovo progetto di risalita, facendolo sentire indispensabile. Perché una Lazio in B senza Chinaglia avrebbe perso subito credibilità, facendo ammainare qualsiasi velleità. Senza contare l’eventuale stato d’animo (prostrato) della tifoseria che, nonostante la retrocessione in B, in quel Long John – diamante grezzo ormai svezzato – si stava sempre piu’ immedesimando. Il pullman della Lazio percorreva l’autostrada del sole, in direzione Napoli. Di li’ a poche ore, a due giorni dall’inizio della Coppa delle Alpi, la squadra avrebbe affrontato in amichevole il Napoli. Maestrelli, che era stato appena ingaggiato dal Foggia, e Chinaglia avevano già parlato la sera prima. Tommaso gesticolava, con il timbro di voce basso, come era consuetudine. Giorgio lo guardava in viso e poi voltava la testa. L’opera di convincimento sarebbe stata laboriosa: Chinaglia, legatissimo a Lorenzo, aveva chiesto di andarsene ma Lenzini, multandolo per insubordinazione, non aveva ceduto. E Tommaso, adesso, vestiva i panni del mediatore. O, meglio ancora, del motivatore, dello psicologo, cercando di convincere Giorgio che quello – solo per il fatto che lo aveva scoperto dall’Internapoli – era il suo ambiente ideale.
Venti giorni prima era terminata una delle stagioni piu’ tribolate della storia laziale: Olimpico terra di conquista per una miriade di squadre, solo ventidue punti messi assieme in trenta partite. Peggiore difesa del campionato: una autentica gruviera. Cinque sole vittorie conquistate: uno smacco senza fine. Il Catania, ultimo in graduatoria, sopravanzato appena di una lunghezza. Una progressiva agonia, da Natale in avanti, acuita dagli sbalzi d’umore di Lorenzo, che ormai vedeva nemici dappertutto, e dai capricci di Chinaglia, poco incline a seguire la Lazio tra i cadetti senza colui, in panchina, che l’aveva scoperto e lanciato in serie A. Frequenti le litigate tra Lenzini e Lorenzo, le alzate di scudo della squadra. Al tecnico argentino piaceva incendiare gli animi: un giorno decise di far allenare la squadra a Cerveteri dimenticandosi, pero’, di avvertire tutti i giocatori della rosa. Ogni giorno un problema da risolvere, una mina da far brillare. Possibilmente urtando la suscettibilità di pochi.
Solo pochi mesi prima la Lazio, ritornata nel ’69 in serie A, festeggiava un onorevolissimo ottavo posto e la consacrazione di Long John, capace di segnare dodici reti all’esordio, compreso il primo, quello che realizzò, in un caldo pomeriggio di settembre, al Milan, scappando a Malatrasi, consentendo ad Enrico Ameri, allora inviato all’Olimpico, di annunciare il suo prezioso sigillo all’universo all’ascolto di “Tutto il calcio minuto per minuto”, per anni la trasmissione piu’ amata della radio di Stato. Con la testa rivolta alla prossima stagione ed alla composizione della rosa che avrebbe dovuto tentare una immediata promozione, la Lazio inizia cosi’ il suo cammino in Coppa delle Alpi. Il calendario prevedeva due gare all’Olimpico, altrettante in Svizzera: la classifica, oltre alle vittorie, premiava pure la squadra che, in ogni impegno, avesse segnato il maggior numero di reti. Ai punti, insomma, si sommavano eventualmente pure i gol realizzati. E la Lazio decise di partire subito forte, segnando quattro reti al Lugano, frutto delle prodezze di Manservisi (uno che nel corso della stagione aveva, piu’ volte, litigato furiosamente con Lorenzo), Fortunato e Chinaglia. Nel tabellino fini’ pure una autorete. Nessuno avrebbe mai immaginato che la Lazio potesse finire in finale. Secondo impegno, Long John ha trentanove di febbre e sta quasi per alzare bandiera bianca. C’è Lazio-Winterthur, di pomeriggio, all’Olimpico: Maestrelli passa tutto la mattinata chiedendo a Chinaglia di stringere i denti. Non c’era un derby – o una finale di Coppa Italia – da giocare ma l’auspicio di Tommaso è quello di entrare lentamente nell’animo del centravanti, facendolo sentire importante per il resto della squadra. E Long John recepisce il messaggio: quasi da solo (con tre reti) schianta gli svizzeri, relegati ad avversari di complemento. Qualcuno, sui giornali, si chiede: ma era questa la Lazio retrocessa poche settimane prima in serie B? In aereo fino a Milano, poi in pullman oltreconfine. Ecco Lugano, il primo degli appuntamenti in terra svizzera. La Lazio sarebbe pure trascinata dall’entusiasmo degli emigrati italiani ma non ingrana affatto. Primo tempo in dichiarato affanno, elvetici avanti di due reti. Nella ripresa si scatena Chinaglia, trascinandosi dietro tutta la squadra. Fortunato accorcia, poi Long John acciuffa il definitivo due a due. Poche ore e si va in campo a Winterthur. Lovati azzecca la formazione, gli svizzeri naufragano, come all’Olimpico, incassando stavolta pure un gol in piu’. Finisce due a cinque: segnano Manservisi, Facco, Fava, Dolso e Morrone, sul finire. Bob, in vista della finale col Basilea – ipotecata già prima della partita col Winterthur – fa riposare Di Vincenzo e Governato. Al loro posto giocano Sulfaro e Chinellato. Eccola, allora, l’ufficializzazione della finalissima: Basilea contro Lazio.
I laziali si trasferiscono a Rheinfelden, a dodici chilometri dalla città. Sotto all’albergo scorre il Reno che, in quella località, tocca due sponde, quella svizzera e quella tedesca. Non vola una mosca, fuori dalle finestre si scorgono mucche miste a foreste. Per ingannare il tempo Morrone e Facco acquistano una canna da pesca. L’intento sarebbe quello di pescare le trote semplicemente aprendo la finestra della stanza d’albergo ma la polizia cantonale lo impedisce. I giornali svizzeri presentano la partita sbattendo in prima pagina la sagoma di Chinaglia: segna a mitraglia – scrivono – e vale cinque milioni di marchi. Al cambio di allora facevano ottocento milioni di lire. Intanto, prima della finale, il massaggiatore Esposito smarrisce un orologio e la squadra, facendo una colletta, gliene regala subito un altro. Arriva Massa, da Roma, mentre Dolso fila a Monza per sposarsi. Il giorno prima della gara col Basilea la formazione “De Martino” ha vinto, a Firenze, il campionato riserve: è un bell’indizio. Arrivano Lenzini, Maestrelli. Lo stadio è zeppo di emigranti italiani. Uno a uno alla fine del primo tempo, va a segno Manservisi. L’arbitro tedesco non è equo, finendo per negarci due rigori solari. A metà della ripresa si sveglia Long John: porta in vantaggio la Lazio, segna ancora dal dischetto. Gli emigranti italiani lo portano in trionfo e Chinaglia intuisce, forse per la prima volta, quanto la Lazio gli stia entrando nel cuore.
Eccola, allora, la formazione di quella sera: Di Vincenzo Facco Legnaro Governato Polentes Marchesi Manservisi Mazzola Chinaglia Fava Fortunato. Poco importa che l’Uefa, chissà per quale motivo, non abbia riconosciuto la Coppa delle Alpi: è trofeo, il primo vinto in Europa dalla nostra squadra, che campeggia nei ricordi dei laziali degli anni Settanta.
Dopo oltre venti ore di pullman la Lazio sbarco’ sotto la sede, allora ubicata in via Col di Lana. Cravatte allentate, capelli arruffati: la foto d’apertura di questo articolo-rievocativo è semplice ed esemplificativa al tempo stesso, con Long John seduto alla destra di Umberto Lenzini, la Coppa delle Alpi sistemata al centro del tavolo della sala-riunioni. In tre non salirono in sede per la foto-ricordo: Di Vincenzo era sceso dal pullman al casello di Bologna, raggiunto dalla moglie e dal figlio. Fava doveva, di li’ a poche ore, sposarsi e non si era mai misurato il vestito scuro per la cerimonia. Chiese di non arrivare a Roma, scendendo a Firenze, guadagnando cosi’ un po’ di tempo. Nello Governato, poi, decise di mollare i compagni a Corso Francia, imboccando, in salita, la strada di casa, vicino via di Vigna Stelluti. La gente, nonostante il primo, vero caldo, aveva quasi bloccato viale Mazzini, reclamando Chinaglia alla finestra. “Giorgio, resta”, gli gridarono in tanti e a Long John, dopo una annata disgraziata, parve di riacquistare il sorriso. Lenzini, qualche ora piu’ tardi, confesso’ che avrebbe incontrato solo per educazione le delegazioni di Juventus e Milan, attivatesi per ingaggiare – se fosse stato possibile – proprio Long John. Ma Chinaglia restava, eccome.
Dopo le vacanze, la Lazio di Maestrelli si raduno’ per il ritiro estivo a Padula. Alla fine di agosto, in una partita di Coppa Italia, Long John, approfittando di un “liscio” di Bet, materializzo’ dopo cinque anni di digiuno, il ritorno alla vittoria in un derby. Era l’annuncio di una resurrezione tutta laziale, culminata, prima, col ritorno in A e, poi, con il primo scudetto. Con Tommaso e Giorgione, su versanti diversi, straordinari trascinatori.