di Giorgio Bicocchi
Se il destino non avesse scelto per lui un destino beffardo – la mattina di tredici anni fa in un affollatissimo Viale Parioli, in sella ad una moto – Nando Viola avrebbe potuto essere ancora oggi un amico fidatissimo del mondo-Lazio. A cui si era maledettamente legato, scegliendo Roma – e la zona Nord della città – per vivere e metter su famiglia, in un connubio che pareva indissolubile.
Anni di Lazio cruenti, quelli da lui vissuti, coincisi con retrocessioni sanguinose, risalite difficili, gestioni societarie complicate. In mezzo al guado la sua sagoma di centrocampista che sapeva giocare a pallone. A testa alta, tanto per affrescarne una delle virtù, risorsa di pochi, peraltro.
Lanciato da Vinicio, valorizzato da Lovati e Castagner nel biennio tra i cadetti quando Nando si era specializzato pure nel calciare punizioni al vetriolo.
Ad appena cinquant’anni, in una mattinata umida di febbraio, l’incontro con la morte. In pieno centro, da centauro. Avremmo avuto un amico in più se fosse riuscito a schivare l’imboscata maligna. Aveva completato gli studi in legge, Nando, ragazzo elegante, colto, capace di parlare e di ascoltare. Con una passione ancora viva per la Lazio che, quando se ne andò, giocava col secondo scudetto sul petto. Peccato che sia andata così anche se il suo ricordo, in chi ama i nostri colori, e’ per nulla sbiadito.