di Giorgio Bicocchi
Quattro anni senza Paolo Carosi, che scelse un mattino di marzo per andarsene. In punta di piedi, da ‘Barone’ , il soprannome che l’accompagno’ per una vita. Guardate le sue foto: la Lazio gli aveva sempre regalato allegria. Era un sogno realizzato, in fondo. E a Tivoli, un feudo Laziale, ricordano ancora oggi con immutato affetto uno dei loro vanti sportivi più luccicanti.
Classe ’38, Carosi, mediano di sostanza, tigna e determinazione, venne scoperto da Fulvio Bernardini. Che, senza remore, decise di dargli una maglia, facendolo traslocare immediatamente in prima squadra. Fatti due conti – tra la fine degli anni Cinquanta e il volgere del decennio successivo – Paolo Carosi registrera’ quasi duecento gettoni con la maglia Laziale. Un giocatore che era pure tifoso della squadra che amava: il massimo.
Terminata la carriera, Carosi si riciclo’ con successo allenatore. Tra i giovani, più che semplice tecnico, si rivelo’ un autentico maestro. Forgiò Primavere fiammeggianti, capaci di vincere lo scudetto nel ’76, sconfiggendo all’Olimpico (quante persone c’erano quel pomeriggio…) la Juventus. Andò vicinissimo a mettersi in tasca il Viareggio: per due anni di fila la giovane Lazio arrivo’ in finale, smarrendosi all’ultima curva. Con lui Giordano, Manfredonia, Agostinelli, Ceccarelli, De Stefanis, Di Chiara, Apuzzo, tra gli altri.
Timbro di voce pacato, un uomo semplice, con la Lazio nel cuore. Che, ad Avellino, poi, si ritroverà addirittura in serie A al termine di un campionato entusiasmante, lupo irpino ancora amato, a distanza di tanti anni. Alleno’ poi a Firenze, scelto successivamente da Giorgio Chinaglia per sostituire il ‘Gaucho’ Morrone, destinato a diventare, dagli anni Sessanta in poi, assieme a Nello Governato, uno dei suoi amici più fidati.
Gran parte della stagione 1983-84 venne vissuta più all’Hotel Feronia di Capena, in ritiro perenne, che a Tor di Quinto. Era una Lazio squinternata, povera ma appassionata. Capace, pur senza Giordano a cui lo stopper Bogoni, a Capodanno, aveva rotto una gamba precludendogli gran parte della stagione, di ritrovarsi e di salvarsi, in un afflato incredibile con il pubblico, sempre presente. A settembre dell’anno successivo, Long John – sbagliando – lo licenzio’, provando la carta-Lorenzo. Fu la fine dei sogni per Paolo, laziale appassionato nell’animo. Oggi, nel quarto anniversario della morte, romantico ricordarlo con affetto. Era un uomo sincero e non banale. Soprattutto un grande Laziale.