di Giorgio Bicocchi
Mimmo era l’uomo in più, il calciatore-ovunque in campo. Quello a cui affidavi la bacchetta del gioco e a cui passavi il pallone, se eri pressato o in difficoltà. Ha raccolto oggettivamente meno, in carriera, di quanto il suo repertorio tecnico (e soprattutto tattico) meritasse, Mimmo Caso. Che oggi, a tre giorni dall’anniversario del primo scudetto della nostra storia, festeggiamo come fosse un fratello maggiore.
Sessant’anni e non sentirli: perché Mimmo, uno di noi, il ragazzo di Eboli nato grande, aveva legittimato coi fatti un amore sconfinato con la Lazio. Salvata dal meno nove, trascinata nuovamente in A. Allenata, in Primavera, portata allo scudetto, mica a vittorie qualunque. Poi la panchina piu’ ambita, quella che il suo mentore, Eugenio Fascetti, gli aveva facilmente pronosticato. “Hai una testa diversa da quella di un normale calciatore: farai l’allenatore”. Quel pomeriggio torrido di fine giugno del ’95 – con l’Olimpico affollato da oltre quarantamila spettatori e con la punizione di Iannuzzi a suggellare il trionfo – resta uno dei suoi ricordi piu’ luccicanti. Non solo perché, professionalmente, toccò uno dei suoi apici, festeggiando lo scudetto Primavera con una nidiata formidabile composta da Nesta, Di Vaio, Roma, Franceschini, Iannuzzi, tra gli altri, ma perché gli fece apprezzare – ancora una volta – l’affetto e la passione che i tifosi della Lazio gli tributarono.
Era appena guarito da una brutta malattia, Mimmo, ma ne portava sul viso le conseguenze. Calzava un berretto, perché era calvo e non voleva rappresentare bruscamente il suo stato. Al fischio finale – mentre il gruppo, che aveva con pazienza forgiato, festeggiava il titolo – venne issato in trionfo, smarrendo il suo cappellino, restando quasi vulnerabile all’interno del suo stadio. Fu cosi’ che l’affetto divenne trasbordante, facendolo commuovere. C’era Mimmo a guidare i ragazzi del meno nove, lui uno dei piu’ convinti assertori – in quella annata condotta col petto in fuori – della possibilità di centrare un miracolo sportivo. C’era ancora Mimmo, l’anno seguente – assieme a Giuliano Fiorini – nella cavalcata verso la A, con l’Olimpico, nella gara col Taranto, vestito a festa, soprattutto di nuovo sognante.
Come in molte storie di Lazio il suo rapporto con i nostri colori poteva finire in modo diverso. Scaraventato su una panchina che scottava, nel luglio 2004, guidando una squadra squinternata e priva di equilibrio, venne esonerato prima di Natale, ai margini della zona che scottava.
Non fu quell’episodio, pero’, ad inficiare un rapporto franco e umanamente importante come quello che lega il popolo Laziale al ragazzo di Eboli. Innamorato della nostra città e di cio’ che rappresentiamo.
Sessant’anni, auguri veri a Mimmo Caso, patriota Laziale.