di Giorgio Bicocchi
Non cercatelo a Capannori, in provincia di Lucca, dove è nato. Neppure a Roma, dove ha maturato il successo. Tantomeno a Montecitorio: con la politica, ormai, ha rotto da parecchie legislature. Oggi, nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno, Gigi Martini sarà sicuramente in mare, veleggiando chissà dove.
Uomo particolare, Gigi, abituato sempre a cavarsela, rigorosamente da solo. Cecco, l’amico di un bel pezzo di vita, incontrato nel ’72 a Tor di Quinto, se ne era andato all’improvviso una sera di gennaio e lui, Gigi, si ritrovò da solo ad addomesticare il lutto. Provò a farlo dal cielo, paracadutista mica da strapazzo; aveva esteso la passione per gli spazi pure a Luciano, ricordate? E poi con una cloche in mano, pilota di aerei di linea. Una moltitudine di ore di volo, dall’alto Gigi osservava mille storie che si svolgevano lì sotto. Ha provato a raccontarle in un bel libro che, recentemente, ha scritto: si chiama “Sogni perduti” ed è una sorta di crepuscolare inno alla vita. Condita – come nella esistenza di tutti – da mille ombre per via di velleità mai compiutamente realizzate.
Gigi, ovvero uno che spesso si è ritrovato solo. O forse voleva davvero essere solo, come la sua storia attuale – uomo di mare, attratto dagli orizzonti senza fine – dimostra. Era solo, Gigi, anche negli spogliatoi dell’Olimpico, quarant’anni fa. Long John bucava il portiere del Foggia Trentini e lui era già negli spogliatoi, con un male cane alla clavicola rotta. Scappò all’Ospedale San Giacomo, quello in cui lavorava Renato Ziaco, ortopedico democratico, proprio di tutti, pure di chi – nello studio privato – non poteva pagare il suo onorario. Infilò le scarpe di Pulici, pensate un po’, nella fretta di lenire quel dolore, intuendo già, con dispiacere, che quel danno gli avrebbe precluso i Mondiali tedeschi.
E Felice, alla fine della partita col Foggia – dopo il triplice fischio di Panzino – dovette passare da Gigi, al San Giacomo, per recuperare i suoi mocassini, buoni per raggiungere Milano dove la moglie stava per dare alla luce il figlio Gabriele.
Era solo, Gigi, pure in moto: gli piaceva dominare grossi manubri, facendo diventare matto Maestrelli che intuiva sempre il pericolo. Sfrecciava sulle strade della Roma anni ’70, con quei capelli un po’ lunghi sulle spalle, nonostante la calvizie precoce dalla fronte fino a quasi la nuca, e un paio di occhiali scuri. E pure in campo, se volete, Gigi si ritrovava da solo, correndo a perdifiato per tutto il campo, mica solo sull’out di competenza.
Era solo quando, nei ritiri, sparava con la pistola, prendendo di mira le “matricole” di quel gruppo di matti buoni: chiedere a Badiani, per gentili informazioni. Con Giorgio ebbe un rapporto ondivago: nemici dal lunedì al sabato, litigate furiose, spogliatoi rigorosamente divisi, uno di qua, l’altro di là. A Sion, in Svizzera, Gigi e Long John si affrontarono agitando i colli spezzati delle bottiglie, figuratevi. Poi, però, d’incanto, la domenica si combatteva uno al fianco dell’altro: Rimbano, che giocava nel Napoli, per poco non ci rimise la gamba, inseguito ora da Gigi, ora dalla sagoma di Long John, uniti dalla stessa sete vendicativa.
Arrivò nel ’71 a via Col di Lana, Gigi, assieme a Oddi e Gritti, accolto da Lenzini, Vona, Tonello e il ragionier Angelini. Rimase fino a quando la Lazio imboccò uno dei suoi proverbiali e ciclici tunnel: quello in cui non sai quando riemergi ma quando lo fai poi sono guai per tutti. Aveva già disegnato il resto della sua vita: pilota di linea. Poi onorevole. Poi manager. Oggi Gigi, a sessantacinque anni, mantiene un fisico da atleta. Sempre abbronzato, la barca che lo aspetta, essendo diventata quasi la sua seconda casa. Il giro del mondo, spiegando le vele o accendendo i motori: ecco i suoi sogni, in questo caso mica perduti perché Gigi ha voglia di realizzarli.
Solo quando gli parli di Lazio Gigi barcolla. Si sente vulnerabile, riavvolgendo stagioni che sanno di romanzo.
Buon compleanno, Comandante, Laziale dalle mille maschere.