di Giorgio Bicocchi
Cosa ti avrebbero detto, caro Aldo, nel calcio di adesso, essenzialmente fisico, in cui i muscoli si dilatano e la cura in palestra diventa maniacale?
Appena centocinquantacinque centimetri per cinquantasei chili: ancora oggi Aldo Puccinelli, sfogliando l’ultracentenaria storia della Lazio, figura come il giocatore più piccolo di statura. Un record, come tanti altri che connotano i quindici anni nella Lazio di questo attaccante, tascabile, se volete, ma ricchissimo di estro, fiuto, intuizioni. Un bagaglio da predestinato, come già il giorno della nascita lasciava presagire: Natale del ’20, mentre l’Italia intera ancora piangeva i suoi ragazzi morti nella prima Guerra, a Bientina, nel cuore delle colline pisane, la famiglia Puccinelli festeggiava l’arrivo di Aldo.
Per la Lazio, che lo abbraccià venti anni dopo, non sarebbe stata una presenza di complemento, macchè. Puccinelli racchiude una larga fetta di storia, di gol, di aneddoti. Abbinandosi a grandi giocatori che hanno avuto il privilegio di esibirsi con lui, negli anni – quelli Cinquanta – in cui la Lazio era sistematicamente alle spalle dei grandi clubs del Nord, elargendo bel calcio, vittorie squillanti, squadre zeppe di classe e ottimi giocatori. E pure a Presidenti leggendari, come Remo Zenobi, che coccolava Puccinelli come fosse un proprio congiunto. I numeri meglio fotografano l’avventura di questo ragazzo che di toscano vantava solo le origini. Persona tranquilla, silenziosa, sobria, l’esatto contrario, dal lato caratteriale, di alcuni suoi conterranei, che magari sanno contagiare di allegria con una semplice battuta o con una risata fragorosa. Per decenni, Aldo Puccinelli è stato il giocatore della Lazio – con le sue 342 presenze complessive in laziale – ad aver disputato il maggior numero di partite. Parliamo di una leggenda, quindi.
L’uomo dei numeri, o meglio dei record: si, perchè con 339 presenze in 13 campionati, Aldo è ancora in testa alla classifica di tutti i tempi. Nessun altro giocatore laziale, finora, è riuscito, in campionato, ad eguagliarlo. Senza contare poi il bottino di reti messe a segno: 77, sesto marcatore di sempre, sistemato con orgoglio alle spalle di Piola, Signori, Chinaglia, Giordano e Rocchi, gli unici, in 112 anni di vita del club, ad aver varcato la soglia prestigiosa dei 100 gol. Ecco perché Puccinelli, numeri alla mano, incarna, senza retorica, la classica bandiera, mai riposta.
Chiariamo subito un concetto: Puccinelli non è stato uno dei tanti ma un formidabile giocatore, un esempio di lazialità romantica, capace di infiammare e di legarsi come pochi a questi colori. Ala ambidestra, piccola, veloce, compatta, capace di puntare il difensore avversario e di dargli la polvere, nel giro di un paio di secondi. Ha costituito un punto di riferimento, sempre e comunque. Ha duettato con Piola e Flamini. È stato, in ordine sparso, senza che nessuno così si offenda, compagno di Gradella, Alzani, Gualtieri, Ferri, Vettraino, Koenig, Lombardini, Malacarne, Antonazzi, Fuin, Bredesen, Vivolo, Burini. Fu capitano, Aldo, e sempre con grandissimo stile, mai tradendo quella fascia, soprattutto con comportamenti ed atteggiamenti sbagliati.
Ogni allenatore ne ha fatto un proprio cavallo di battaglia: un autentico purosangue. Pur essendo di bassa statura, Puccinelli vantava un fisico da torello: era difficile togliergli palla, svariare lungo tutto il fronte offensivo – pur con la peculiare caratteristica di giocare all’ala – era una sua virtù. E poi il tiro, rapido, saettante, come il suo bottino realizzativo, ampiamente dimostra.
Piombo’ a Roma da uno spicchio di Toscana: senza grandi credenziali e con quella zavorra del fisico tutt’altro che aitante, Aldo si veste dei nostri colori tra mille dubbi e reticenze. Prima stagione, appena due presenze. Gli scettici insorgono: e che vi aspettavate da uno così piccolo? Non doveva giocare a pallone, tutto qui. Ma il tecnico Popovich, approdato sulla panchina della Lazio, se ne invaghisce calcisticamente. Gli dà fiducia, lo schiera a sinistra, lo promuove titolare e la storia – all’improvviso, come talvolta accade nella vita di ognuno, in tutti i campi – cambia.
Puccinelli ama giocare a destra (solo nella seconda fase della sua avventura laziale verrà collocato stabilmente nella posizione prediletta) ma pure sulla corsia opposta è uno stantuffo che guizza, salta con facilità gli avversari, insomma crea scompiglio, guadagnandosi, a suon di prestazioni, il ruolo da titolare. Il primo gol in serie A? Lo segna al Modena nel dicembre del ’41. È il prologo alla sua definitiva consacrazione. Nella seconda parte di quel campionato, Puccinelli spopola. Batte Masetti e realizza il suo primo gol nel derby. Schianta poi, in trasferta, il Milan, rifilandogli tre reti. Ormai la farfalla si è conquistata uno spicchio di cielo tutto proprio. C’è un gigante all’ala e la Lazio si gode la propria fortuna. Nove reti in ventitre partite giocate: ecco chi è Puccinelli.
L’intesa con Piola lievita. L’ala inventa, costruisce gli spazi ideali per accendere il repertorio da fromboliere del centravanti. È un vero peccato che il tandem si debba forzatamente sciogliere a causa della guerra. La Lazio gli era entrata nel sangue e, quando la guerra finisce, al contrario di qualche altro ex compagno che preferisce non fare ritorno a Roma per giocare in alcuni clubs del Nord, Puccinelli sale sul primo treno, in tasca la convocazione della Lazio. La sua storia laziale si snoderà all’interno di due segmenti temporali: il primo, dal ’40 al ’43. Il secondo, dalla fine della Guerra fino al ’55. Diventerà così il simbolo della rinascita: capitano, attaccante prolifico, centravanti, guida per i piu’ giovani. Un esempio palpabile di lazialità struggente: professionalità al servizio del collettivo, si direbbe oggi. Dal ’45 al ’47 gioca tutte le partite di campionato (58), spesso in campo anche in non perfette condizioni fisiche. Nel ’47 è il capocannoniere della squadra con tredici centri. Finalmente è stato schierato a destra ed inconsciamente gradisce lo spostamento di fascia.
Puccinelli assiste a divorzi strazianti e controversi: come quelli di Piola e Ciccio Sentimenti. Attorno ad Aldo, che resta il proprio indiscusso capitale, la Lazio muta pelle. Nel ’52 la squadra arriva quarta per la terza volta consecutiva, giocando un bellissimo campionato. Aldo è sempre lì, in prima linea, cambiando spesso partner, sempre decisivo, se non nei gol certo nella presenza. La Nazionale? Non se ne accorge ed è un vero delitto: riesce, da ragazzo saggio, a dominare la rabbia. È la Lazio la sua medicina, il suo elisir ed il cruccio svanisce.
Diventa il primatista delle stracittadine: ne giocherà ben diciannove, lasciando sovente solchi profondi. Come il 22 marzo del ’53 quando una sua doppietta stende la Roma, appena tornata nella massima serie. Assiste impotente al declino del club, zavorrato dai debiti e dall’improvvisazione. Lui imbocca senza isteria la fase calante della propria carriera: in due campionati gioca solo ventisei partite, realizzando la miseria di tre gol. Nell’estate del ’55, a trentacinque anni, cede il passo ad attaccanti come Selmosson e Bettini, mica due qualunque. Per Aldo non c’è più posto ma il vecchio capitano, come sempre, incassa con stile. Si accomiata senza alzare la voce, senza creare sterili polemiche. Lascia la Lazio e, come spesso è accaduto a tanti grandi interpreti della società, pure il calcio che conta. Morirà a 73 anni, a Livorno, lasciando al pallone, il grande amore della sua vita, un nipote portiere nelle serie minori. Un giocatore così, bravo in campo e custode di una lazialità luccicante e mai tradita, avrebbe meritato di alzare, da capitano, un trofeo: crudeltà del destino averlo mai fatto.