di Giorgio Bicocchi
‘L’anno a Livorno per crescere e il ritorno alla Lazio – ‘Carver mi fece esordire a Napoli, primo maggio del ’55. Ricordo che alloggiavamo all’hotel Vesuvio, io ero la riserva di Pinardi, un classico numero cinque. Alla fine della colazione Carver e il massaggiatore Fortunati mi chiamarono in disparte.
Mancava Nicola Lo Buono, che si disponeva sempre da terzino, e Carver, nonostante io mi trovassi meglio da stopper, decise di farmi scendere in campo, preoccupato dall’attacco del Napoli che, al Vomero, schierava gente come Jeppson e Pesaola, ovvero attaccanti che non tremavano. Andò bene, nonostante la sconfitta rimediata. Esordio in A a meno di vent’anni: avevo coronato il mio sogno di ragazzo.
Alla fine di quel campionato la Lazio mi chiamo’, offrendomi la possibilità di giocare, in serie B, a Livorno. Ambiente caldo, stadio sempre zeppo: in amaranto, seppure in prestito, venni stimato. Entrai nel cuore della gente quando, nel corso di una delle prime partite – nonostante un colpo subito in bocca – volli rientrare subito in campo, respirando col naso, con l’ovatta piazzata tra le gengive. Una prova di attaccamento che colpi’ lo stadio Ardenza: da allora la stagione fu in discesa perché il pubblico capi’ ed apprezzo’ che tipo di giocatore fossi. Le difficoltà mi esaltavano, il coraggio non mi mancava. Mi regalo’ consigli importanti Armando Picchi, compagno di quell’avventura. A Livorno, tra l’altro, venni presentato benissimo da Puccinelli, reduce dalla lunghissima militanza in maglia laziale. Lui, nato a Bientina, sulle colline pisane, scelse una villetta davanti all’Ardenza per continuare a praticare calcio ad alto livello. Gioco’ altri due anni a Livorno: gli piaceva raccontarmi le sue giocate con Piola o con Flamini. Puccinelli, con quel numero mostruoso di presenze messe assieme con la Lazio, e’ una bandiera mai ammainata’.
Campione d’Europa con la Nazionale militare – ‘Prima ad Orvieto, poi a Firenze: così, per diciotto mesi, con la divisa addosso, praticai calcio con la Nazionale militare. Un periodo contraddistinto da amicizie e rapporti importanti, che mi fecero crescere e maturare. Oltre ad imparare molto. Quella squadra, infatti, era composta da giocatori che, in serie A, si erano già fatti un nome. Ve ne ricordo alcuni, a beneficio magari dei settantenni di oggi ai quali sembrerà di riaprire un vecchio album: Vavassori, Robotti, Masiero, Aggradi, Emoli, Bicicli, Cacciavillani, Pivatelli, Ronzon, Arrigoni. Nel ’57 vincemmo il titolo europeo militare ma non avemmo molto tempo per festeggiarlo. Poche settimane dopo, da Ciampino, con un aereo rigorosamente con le eliche, partimmo per l’Argentina: a Buenos Aires erano in programma a luglio i mondiali militari. Arrivammo terzi, dietro la Francia e i padroni di casa. Fu un’altra occasione per crescere: per la prima volta lontanissimo da casa, in un altro continente, a fusi orari di distanza, vivendo pure un’altra stagione perché in Argentina era inverno’.
Il treno da Anzio, il primo contratto, il benessere – ‘Soltanto dopo aver sposato mia moglie Leda, decisi di prendere casa a Roma. Nonostante la Lazio si allenasse nella zona nord della città, nonostante la sede sociale fosse a via Frattina, optai per la Tuscolana. Acquistai un attico sopra al vecchio cinema New York: da li’, percorrendo le strade consolari che conducevano verso il mare, avrei impiegato meno tempo ad arrivare ad Anzio.
E ad Anzio, quindi, abitai diversi anni, anche quando ero entrato in pianta stabile nella rosa della prima squadra. Ricordo il sibilo del treno, poco prima delle otto della mattina. Mia madre mi lasciava 40 lire in cucina per il costo dei biglietti e per qualsiasi altra necessità. Qualche volta, un po’ in ritardo, mi dovetti mettere a correre per salire sul predellino, riuscendo a salire sul treno quasi in extremis. Se lo avessi perso sarei arrivato tardi agli allenamenti, in programma allo Stadio Torino, quello che poi sarebbe diventato il Flaminio. Alle nove arrivavo alla Stazione Termini, da li’ prendevo il 39 che mi portava a piazzale Flaminio. Nelle giornate calde i ‘nasoni’ di acqua – che incontravo strada facendo – combattevano l’arsura. Un po’ perché amavo camminare ad andatura sostenuta, un po’ perché non vedevo l’ora di allenarmi con i campioni che la Lazio di allora allineava, capitava che arrivassi allo stadio Torino con sensibile anticipo. Una volta diluviava, mi sistemai sotto un cornicione: fu l’usciere del campo a farmi entrare, offrendomi pure la colazione.
Iniziai a guadagnare i primi soldi: accolsi il benessere con l’accortezza di chi, in famiglia, non navigava nell’oro. Mio padre era stato infermiere sui sottomarini, i soldi non mancarono mai ma era consuetudine non dissiparli. Eravamo consci dei sacrifici che erano costati.
Era mia madre a gestire i miei risparmi: i primi ingaggi furono sostanziosi, nel ’57, ad esempio, tanto per fare un paragone, la Lazio elargiva centomila lire a punto. Cominciai a comprarmi le prima camicie: prima di allora giravo sempre con le magliette. Nell’immaginario e nella realtà, le camicie erano abiti per le persone ricche. E non a caso, dopo gli allenamenti, le camicie erano indossate da Burini, che aveva giocato tanti anni al Milan, da Humberto Tozzi, da Bredesen, da Bob, da Checco Antonazzi, da Fuin. Gente che, prima di me, con classe e volontà, aveva sfondato’.
Gli anni dopo l’addio alla Lazio – ‘Fino al ’63 rimasi alla Lazio, al termine di una avventura irripetibile ed indimenticabile in cui collezionai oltre centoventi presenze complessive. Dopo gli anni in cui la Lazio aveva dato prova della sua forza, battendo spesso le potenze di Nord, classificandosi a ridosso degli squadroni del nostro calcio, arrivo’ il periodo della grande crisi. La società si era indebitata, i dirigenti andavano e venivano. Non c’era chiarezza sul futuro: inevitabile che il clima di incertezza di riflettesse sulla squadra. Retrocedemmo per la prima volta, restai nel primo anno di B poi, a ventotto anni, nel ’63, mi infortunai gravemente al ginocchio. Lasciai la Lazio, firmai con l’Udinese ma senza lasciare un grandissimo ricordo. Fu all’ospedale di Careggi che mi rimisero in sesto: un calvario, con il ginocchio che non rispondeva più. Avevo capito, ormai, di essere arrivato al capolinea della carriera. Tornai ad Anzio, capitano e giocatore di una squadra che giocava in quarta serie. Lo stadio si riempiva di amici e di semplici curiosi, desiderosi di vedere all’opera un figlio di quella terra, uno che che aveva fermato Nordhal, tanto per citarne alcuni. Smesso di giocare ho intrapreso la carriera di allenatore: fui tecnico pure della Romana Gas. La società, pur di ingaggiarmi come tecnico, mi assunse come dipendente. Dal ’74 al ’76 (nella foto che vedete allegata sono a destra, assieme a Pulici e a Moriggi) dopo una positiva relazione consegnata da Bob Lovati a Lenzini, fui inserito nei quadri tecnici della prima squadra,’secondo’ di Giulio Corsini nel breve periodo – dall’autunno a dicembre del ’75 – in cui fu allenatore della Lazio.
Appartenevo ad una nidiata di potenziali promesse: accanto a me – nel sognare un futuro nel grande calcio e nella Lazio, in particolare – c’erano Pistacchi, Mastroianni, Spurio, Severini. Con un po’ di fortuna, senza montarmi mai la testa, con estrema umiltà, ho vissuto alla Lazio stagioni memorabili. Oggi le mie due figlie, Cinzia e Nicoletta, sono ancora tra le mie più accanite tifose. La Lazio e’ stata, da giocatore, da tecnico e da appassionato, una delle cose più belle della mia vita. E ancora oggi – alle decine di bambini che, invogliati dai genitori, anche in spiaggia, ad Anzio, mi avvicinano, chiedendomi di riaprire l’album dei ricordi – racconto come sia bello ed unico essere Laziali’.