di Giorgio Bicocchi
Francesco Gabriotti giocò soltanto la finalissima del torneo di calcio delle Olimpiadi di Berlino. Ferragosto del 1936, una data che il calcio italiano dovrebbe sottolineare sempre con il lapis blu: perché da allora, è bene sempre ricordarlo, mai alcuna squadra azzurra è riuscita a vincere la medaglia d’oro nel torneo di calcio. Sembrava la consacrazione di una favola: romano, nato nel ’14, l’oro tedesco era arrivato nel pieno delle risorse fisiche.
Gabriotti incarnava, in campo, quella che, nelle stagioni a seguire, sarebbe stata l’ala di raccordo, a metà tra il centrocampista di copertura e l’esterno arrembante, utile per aiutare gli attaccanti. La Lazio era la sua casa: tutta la trafila in maglia Laziale fino all’avvento in prima squadra, nel ‘32. Giocò per cinque anni con i colori del cielo addosso, segnando mezza dozzina di reti. Duettò pure con Piola. Dopo qualche mese dallo squillo olimpico, tornato a Roma da eroe, puntualmente festeggiato dal regime, si procurò un grave incidente. La medicina di allora non aveva ancora fatto i progressi di quella attuale: capitava che un atleta dovesse dare addio alla carriera agonistica. Ecco, la favola di Gabriotti durò troppo poco: a ventitré anni, seppure in molti profetizzassero per lui una carriera luminosa, disse basta, ritirandosi. Avrebbe continuato ad essere, probabilmente, un calciatore bravo e generoso: una volta, con Sclavi fuori dal campo, si riciclò pure portiere della Lazio, indossando i guantoni.
Prima di partire per Berlino aveva legato anche con il veneto Baldo, un mediano che nella Lazio incise parecchio. Due Laziali, insomma, sul tetto del mondo. Solo una partita in quella Olimpiade, quella giusta, che consegnava alla storia: la finalissima contro l’Austria. Animi inquieti alla vigilia: fu Jesse Owens, la gazzella nera osteggiata da Hitler, re della velocità, ad allietare con canti e balli la vigilia azzurra. Owens alloggiava a pochi metri dalla comitiva azzurra, schierandosi apertamente con i sogni dei giocatori italiani.
Gabriotti in quella finale entrò di diritto, regalando l’assist vincente per il gol decisivo di Frossi. Immagini struggenti, rigorosamente in bianco e nero, con Frossi che indossava un paio di occhiali retti dietro la testa da una cordicella.
Gabriotti, una delle nove medaglie olimpiche della Polisportiva Lazio. Un vanto unico, esclusivo, che regge all’usura del tempo. Ferragosto del ’36, c’è stato un pizzico di Lazio in quel trionfo.