di Giorgio Bicocchi
La radiocronaca fu di Niccolò Carosio, per un giorno prestato alla pallanuoto dal calcio. Italia-Olanda 4 a 2, finale del 1948: fu azzurro l’oro dei Giochi Olimpici di Londra. Il metallo pregiato che il Settebello si mise al collo nonostante lo smaccato ostracismo del pubblico inglese che non mancò di tifare – nell’arco dell’intero torneo olimpico – per tutte le avversarie degli azzurri per via della dittatura (peraltro all’epoca già deposta) di Mussolini.
Ermenegildo Arena fu tra gli azzurri eletti che vinsero quei Giochi Olimpici, allora tesserato per la Lazio, al pari di Lallo Ghira e Geminio Ognio, altri due medagliati, altri due vanti del nostro sodalizio. “Gildo” Arena – che Niccolo’ Carosio battezzò nel corso della radiocronaca della finale del 1948 “il Meazza della pallanuoto” – fu, a detta di molti esperti, tra i dieci giocatori di tutti i tempi più bravi della waterpolo. Alto, asciutto, i capelli un po’ radi, il demiurgo della “beduina”, una sorta di rovesciata, con le spalle rivolte alla porta avversaria, messa in pratica col braccio capovolto. Il portiere, spesso, era impreparato davanti alle folgori che Arena – il nono campione olimpico della S.S. Lazio – scagliava, lungo l’intero arco del fronte offensivo. Un marchio di fabbrica, la proverbiale “beduina”, che contrassegnò, in vasca, l’epoca del Dopoguerra.
Dal ’46 al ’48 fu atleta Laziale, il tempo di entrare nella leggenda. Poi fu solo Napoli, la sua città, prima alla Rari Nantes e poi ai Canottieri, circoli divisi da rivalità acerrime, se non altro per via di quegli ottocento metri che li dividono. Classe 1921, morì, sul litorale domizio, nella villetta di Castelvolturno, nel febbraio del 2015, a quasi ottantaquattro anni. In vita, una volta smesso di giocare, aveva dissipato un po’ tutti i guadagni accumulati: colpa di una insana passione per il gioco, carte e cavalli, soprattutto.
Invocò l’assegno vitalizio – oggetto della c.d. “Legge Bacchelli” – per sopravvivere anche agli assalti oltraggiosi del morbo di Alzeihmer, compagno infame degli ultimi dieci anni di vita. Il contributo statale, pensate un po’, arrivo’ pochi giorni prima della morte, piombata davanti al mare, la visuale preferita di Arena, seppure scandita – gli ultimi anni – da occhi senza più luce.
Provò a fare fortuna pure in Australia, dall’altro capo del mondo: invano. Abbandonato dai due figli, praticamente adottato da una famiglia campana che – a Natale e nelle feste comandate – lo faceva sentire al centro dell’attenzione, nonostante i rovesci della vita.
Fu un grande giocatore di pallanuoto (nonché un bravissimo nuotatore) e un uomo spesso vittima delle proprie debolezze, Arena. Il cui ricordo, però, la Lazio (e i Laziali che amano il nostro sodalizio) dovrebbero sempre salvaguardare. Perché lui è uno dei nove campioni olimpici che nobilitano i quasi 115 anni di vita della società che portiamo nel cuore.