di Giorgio Bicocchi
Pensi al suo proverbiale impermeabile chiaro e al suo incedere, salutando l’Olimpico, sul tartan dello stadio. Ormai era diventata una scaramanzia: la Lazio vinceva e, ogni domenica, dalle due in poi, la pista si infiammava.
Pensi alle partite a carte con Tommaso, sul pullman condotto da Recchia. Alle visite infrasettimanali ai Lazio Clubs, sparsi per la regione. Agli stornelli improvvisati quando si andava in trasferta, quelli che facevano imbestialire Long John, sonnecchiante sui sedili del pullman.
Quindici anni di Lazio, da presidente. Anzi, da Presidente solo per il fatto che, con lui, la Lazio vinse il primo scudetto, dopo 74 anni di storia. Una miscela improvvisata, quella, ma fulminea, devastante per ogni avversario. Una Lazio disorganizzata, forse, ma vicinissima alla gente. E, se permettete, vincente. Per questo amatissima, anche a quasi quarant’anni, ormai, da quel prodigio. Da chi lo visse da tifoso, in prima persona, o di riflesso, dai racconti appassionati di padri e nonni.
Gli ingaggi dei giocatori perfezionati nel luminoso appartamento di Piazza Carpegna. I movimenti per Roma a bordo dall’Alfa Zagato. L’attesa per l’uscita dei giornali, all’una di notte, all’edicola di Piazza Colonna che è sempre la stessa anche se non pare. I rapporti ondivaghi con Lorenzo. La scelta di Tommaso. Le litigate e gli abbracci con Chinaglia. Poi i dolori, laceranti. Nel giro di poche settimane accompagno’ al cimitero prima Tommaso e poi Luciano. Era nato in Colorado, la terra delle aquile, Umberto Lenzini. Quelle che ritrovo’ per il resto della sua vita, decidendo di acquisire il pacchetto di maggioranza della Lazio, nel ’65.
Oggi, ricorrendo il ventiseiesimo anniversario della sua scomparsa, ognuno di noi dovrebbe dedicargli un pensiero affettuoso. Viva Lenzini, il secondo papà di ogni laziale.