di Giorgio Bicocchi
Come e’ il risveglio la mattina di ogni 18 gennaio? ‘E’ un risveglio pieno di dispiacere, di amarezza. Ho perso papà che avevo due anni. Mi è mancato in diverse età: quando ero bambino e magari lo avrei cercato per giocarci un po’ . Per andare insieme nel parco o a fare una passeggiata. Mi è mancato nella fase dell’adolescenza.
Mi è mancato nelle feste, nelle ricorrenze. Mi manca oggi, nonostante abbia quasi quarant’anni’.
Non avendo potuto conoscere il suo papà, Stefano Re Cecconi ha scelto un modo indiretto per inseguire Luciano, la sua zazzera bionda ed una maglia celeste perennemente sul dorso. E’ stato Piero, lo zio, a mostrargli – dall’età della ragione in poi – decine di foto, ritagli di giornali. Articoli, copertine di riviste, video, registrazioni audio. Conoscete la diceria che accompagna i giocatori con la chioma bionda: alcuni di loro sfonderebbero solo in virtù del colore dei capelli diversi dal resto. Ecco, Luciano, in realtà, avrebbe sfondato pure se fosse stato rossiccio. Stefano Re Cecconi sta ancora inseguendo il ricordo di Luciano. Ha messo assieme una documentazione imponente, ha scritto un libro, ha raccolto storie, aneddoti, ricostruendo. O provando a farlo, come solo può fare un figlio, romanticamente riannodando il ricordo di un papà che non ha praticamente conosciuto. Avendo un tuffo al cuore ogniqualvolta l’indice della mano sfoglia un album.
‘Credo di aver capito che nella vita c’e’ sempre un ultimo minuto. Papà aveva sognato ad occhi aperti di sfondare. Lavorava in carrozzeria e la sera si andava ad allenare. Sognava di sfondare, in modo genuino, magari di diventare un giocatore dell’Inter che, in quegli anni, era un po’ la malattia di casa. Poi la Pro Patria, il calcio che non resta solo divertimento ma si consolida. L’incontro con Carlo Regalia, a Busto Arsizio: e’ stato lui a trasmettergli il modo più giusto per diventare un grande calciatore. Album di foto, documentazioni di amici, racconti: da tutto emerge che papà ha vissuto la sua vita come se fosse sempre un ultimo minuto. Soffrendo, inseguendo il risultato. Come quel pomeriggio di fine dicembre contro il Milan, in una partita che pareva stregata. Il passaggio filtrante di Frustalupi, lui che si insinua e trova l’angolo giusto. Felice mi ha sempre detto che mai, da quel giorno, ha riascoltato all’Olimpico il boato che accompagno’ quel gol’.
Centinaia di foto per surrogare papà: istantanee per riannodare un legame che un colpo sventurato di pistola mai potrà inficiare. ‘Non ce n’è una a cui sia più legato – racconta Stefano -non ne ho una in testa a cui sia più affezionato. Mi piacciono molto le foto che ritraevano la mia famiglia nella vita di casa. Io, quando papà morì’, avevo due anni. Mia sorella Francesca era nella pancia di mia madre. Penso alla foto con Gigi Riva, in Nazionale: erano amici e si stimavano. Penso alle foto con Gigi, in occasione dei lanci di paracadutismo per iniziative di beneficenza. Penso a quelle dei ritiri estivi, senza lo stress della stagione. In ogni foto ho visto una persona generosa’.
Una ricerca costruita sui palpiti del cuore, anno dopo anno, foto dopo foto. Cercando in intuire dalle pieghe del viso, da una smorfia, da un urlo, una esultanza, un abbraccio cosa passasse per la mente di quel ragazzo il cui ricordo – a trentasette anni di distanza dalla morte che commemoriamo proprio oggi – non evaporerà mai. ‘Mia sorella Francesca ha il carattere di papà, e’ riflessiva come lo era lui. Io sono più esuberante: proprio in virtu’ di come sono, chissà, ho deciso, dieci anni fa, di lasciare casa e di venire a vivere a Roma’.
Un omaggio postumo alla memoria di Luciano, il desiderio di inseguire il ricordo di un padre. Piombando da Nerviano a Roma, sulle orme di ciò che il papà aveva seminato. ‘A casa papà lo abbiamo sempre sentito presente. I silenzi dignitosi di mamma ce lo hanno fatto immaginare sempre con noi’.
Cesarina resto’ vedova a nemmeno trent’anni, un figlio di due anni che camminava appena, Francesca ancora da dare alla luce. ‘Quando mi viene a trovare a Roma penso sempre alla valanga di emozioni che deve provare. Erano giovanissimi entrambi, venuti a Roma dalla provincia. E papà, dopo aver esordito in A col Foggia, aveva trovato nella Lazio la sua consacrazione’.
Un gruppo di pazzi, di pistoleri. Di giocatori indomiti. Di Campioni d’Italia, soprattutto. ‘Eppure, a modo loro, così diversi, si volevano bene. Maestrelli il teneva uniti, certo, ma mai, da allora, la Lazio ha avuto un gruppo di giocatori così amanti alla follia della maglia che indossavano. Quando sono venuto ai funerali di Giorgio, lo scorso settembre, ho incontrato i figli. Ed ho rivisto Connie che fece recapitare, quando nacqui, un completo celeste a mia madre. Ero davanti alla bara di Giorgio, nella Chiesa del Cristo Re, e ripensavo agli anni in cui Chinaglia era presidente. C’era anche Felice in quella società, senza soldi ma ricchissima d’animo e di generosità. Giorgio faceva recapitare ogni anno a casa regali costosissimi per me e mia sorella. Era un modo per farmi sentire papà vicino. Un modo che io e Francesca non abbiamo dimenticato. E Maestrelli, negli anni di Foggia, chiedeva spesso a papà di portare i gemelli, Massimo e Maurizio, al cinema o alle giostre. Sapete Tommaso come lo chiamava? Il Tato. Dove pensate che avrei voluto vivere io se non qui, a contatto con la gente che papà ha amato, ricambiato alla follia?’.
Non può quel colpo di pistola maledetto cancellare il legame che tiene avvinto Luciano alla storia della Lazio. E Stefano, per tutti noi, resterà sempre il figlio di Cecco, quello a cui la vita giro’ le spalle all’improvviso, all’imbrunire di un pomeriggio di trentasette anni fa, in una gioielleria della Collina Fleming. E Stefano, col cuore gonfio di tristezza, ha scavato pure sull’epilogo della morte del papà. ‘Mia mamma non ci ha fatto crescere alimentando sentimenti di odio o rancore. Mai abbiamo avuto un atteggiamento ostile. Ma sulla storia di papà, sulle modalità della sua morte, si è aperto uno squarcio, come il libro di Maurizio Martucci ha cercato di dimostrare. E’ stata una vicenda poco chiara che, da figlio, avevo l’obbligo di sviscerare’.
Luciano calciatore, nazionale, paracadutista. L’amicizia con Gigi (‘avevano caratteri diversi ma ognuno si compensava con l’altro’), la promessa di Lenzini di introdurlo nei ranghi tecnici della Lazio quando avrebbe smesso di giocare. ‘A papa’ piaceva dilettarsi con i giovani. E credo che allenare i ragazzi, dargli una educazione, in campo e fuori avrebbe potuto essere il suo futuro. Aveva chiesto a Lenzini di non cederlo mai, di farlo restare alla Lazio, nonostante Milan e Juventus, soprattutto, avevano fatto recapitare al Presidente offerte importanti. Avrebbe allenato volentieri i ragazzi e avendo avuto un allenatore fantastico, come maestro di calcio e psicologo, come Tommaso credo che sarebbe pure diventato un buon tecnico’.
Quando Luciano morì fu come se tutti perdessero qualcosa di proprio. Lenzini non si riprese più, dopo aver accompagnato a Prima Porta, appena pochi mesi prima, Tommaso. Giorgio torno’ in America, portandosi appresso il ricordo di uno che non faceva parte della sua cerchia ma che comunque mai avrebbe tradito. Il club, privato gradualmente delle sue anime più rappresentative, rotolo’ in serie B, senza più identità. ‘Ho sempre pensato che la Lazio abbia avuto lo stesso destino del Grande Torino. Che perse in una tragedia collettiva tutti i suoi eroi a differenza della Lazio che, invece, il pianse uno ad uno’, racconta Stefano. Non era assolutamente automatico che lui, il figlio di Cecco, il ragazzo nato grande per forza di cose, che mollo’ Milano per inseguire il ricordo del papa’, finisse per diventare un laziale più vero di tanti di noi, abbonato in Tribuna Tevere, presente ogni domenica, col cuore e il peso della tradizione di famiglia. E l’immagine che Stefano regala e’ un inno alla Lazialita’, ad un modo di intendere la vita, colorandolo con i colori del cielo. ‘Non mi piaceva vivere di luce riflessa, aprire un album di foto, rileggere un articolo di giornale e capire, apprendere chi fosse papà. Dovevo farlo allo stadio, all’Olimpico, passando per viale del Gladiatori, dove transitava il pullman della Lazio. Oppure salendo i gradini della Tevere, dalla cui parte di campo spesso papà sprintava, trascinando lo stadio intero. Vedere una maglia celeste che si muove sul prato dell’Olimpico e’ una emozione fortissima. Che rende quasi la maglia della Lazio non barattabile, bella, unica e splendente’.
E allora, caro Stefano, cosa resta? ‘Resta comunque una bellissima storia, nonostante l’epilogo infame. Tutti i laziali mi vogliono bene, questa e’ casa mia. Il sogno – non avendo potuto abbracciare papà – e’ quello di vedere con lui una partita della Lazio, magari su una nuvola immaginaria, sopra la collina di Monte Mario, mordendoci il labbro per il timore di prendere un gol, stretti e felici al momento di segnare una rete’.
Il sogno di tanti di noi, spinti verso la Lazio, passione ereditata dagli avi. Nel nome del padre, appunto.