di Giorgio Bicocchi
Talvolta la vita può prendere una piega inaspettata. Carlo Lenzini era il fratello che, quasi più di Umberto, aveva voglia di acquistare la Lazio. Nei disegni della famiglia Carlo avrebbe sostenuto il peso economico più rilevante del’investimento, lasciando Umberto sul ponte di comando.
Ovvero, diventare Presidente. Ma poi Carlo, sul piroscafo che lo conduceva negli Stati Uniti, ebbe un infarto e morì. Così Umberto si ritrovò da solo nell’avventura, senza però tradire l’ideale del fratello.
Prima vice-Presidente, poi, esattamente un anno più tardi, nel novembre del ’65, eccolo eletto numero uno della Lazio. La sua storia fu subito curiosa: Umberto Lenzini era e restò cittadino americano. Nato a Walsenburg, in Colorado, lo Stato delle grandi montagne e degli spazi che quasi si congiungono col cielo. Un nido di aquile, avallando l’immaginifico, insomma.
Umberto era figlio di emigranti, partiti senza soldi da un paesino ai piedi dell’Abetone. Il piroscafo li sbarcò sulla costa Est ma il loro futuro era nel cuore dell’America. A Huerfano gestivano un coloratissimo emporio: uno di quelli in cui potevi trovare di tutto, dalla mostarda ai lazzi per ammansire i cavalli selvaggi. Fecero soldi, tanti, al pari di molti italiani con cui divisero le decine di giorni di navigazione, sull’Atlantico, a caccia di un sogno. Umberto, a quindici anni, tornò in Italia: i suoi genitori, con le migliaia di dollari portati dal Colorado, avevano deciso di investire a Roma, acquistando svariati terreni. Sarebbe stata quella – da lì a qualche decennio – la fortuna economica della famiglia Lenzini. Il mattone, l’edilizia urbana, i progetti, le gru, le impalcature. E a quel mondo, nel corso della sua vita, il Sor Umberto rimase profondamente legato, ricordando i sacrifici fatti dai suoi avi per arricchire gli eredi.
La Lazio fu, senza retorica, la cosa più bella della sua vita. Quella in cui dedicò forze, energie, idee. L’uomo del primo scudetto, settantaquattro anni dopo la fondazione della società. L’Olimpico sempre zeppo come un uovo, la storia di quella Lazio fiammeggiante che sembrava sempre dentro un film.
Si, legittimo ancora chiamarlo, a venticinque anni dalla morte, il Presidente. Perché apparteneva ad un calcio romantico ed ormai evaporato. Quello senza sponsor sulle maglie. Quello dell’Olimpico più bello, senza restauri e senza copertura, con la Tevere divisa in numerata e non numerata. Lo stadio che, di lì a poco, avrebbe soppesato la gioia impazzita di chi aveva sino ad allora festeggiato una Coppa Italia e una Coppa delle Alpi.
Si, Lenzini era e resta il Presidente. Un uomo apparentemente timido ma scaltro negli affari. E a cui piaceva stupire. Temeva le personalità forti, Lenzini: come ad esempio Lorenzo o il consigliere Giambartolomei. Talvolta, usando le parole giuste, risultava anche facile convincerlo: fu il giornalista Mimmo De Grandis, nel ’75, ad esempio, a suggerirgli di non giocare contro il Barcellona la gara di andata di un turno di Coppa Uefa.
Non badava a spese, però, per ingaggiare bravi direttori sportivi. E la Lazio, sfogliando l’album dei quindici anni in cui fu Presidente, ebbe davvero dirigenti coi fiocchi: Sbardella, Janich, Manni, Moggi. La gelosia era un suo difetto: fu proprio a causa di dissapori frutto della gelosia che il rapporto con Sbardella si incrinò definitivamente.
Tra gli allenatori legò particolarmente con Maino Neri (erano i suoi primi mesi da Presidente) e con Mannocci. Di Vinicio soffriva il carattere, le sue ombrosità, tipiche sudamericane. Il rapporto con Maestrelli rischià di naufragare quando Lenzini, un giorno, negli spogliatoi, rimproverò aspramente i gemelli Massimo e Maurizio, che scorazzavano dietro ad un pallone. Il giorno successivo – all’apice dei suoi proverbiali slanci – Lenzini consegnò ai due ragazzini una enciclopedia: era un dono di scuse e un rinnovato segno di attenzione per Tommaso. Scaramantico, eccome: la tradizione di calciare un rigore a Pulici, prima di ogni partita in programma all’Olimpico (e di pretendere di segnarlo) era l’apripista dei successi di quella squadra.
Tra gli anni Sessanta e Settanta la sua famiglia alimentò la propria ricchezza. L’edilizia-Lenzini si estese dalla zona di Baldo degli Ubaldi fino alla Madonna del Riposo. Poi ancora sulla via Olimpica. Prima di sbarcare a Pomezia. Umberto Lenzini abitava in Piazza Carpegna, su due piani. Appartamenti luminosi, un attico e un super-attico, costruiti dai suoi progettisti. Ogni stanza possedeva un proprio bagno. Una moglie, Delia, che lo seguiva senza mai intercedere nelle sue attività. Cinque figli, Giovanni, Paolo, Silvestro, Elide.
A Lovati fu sempre legato da una predilezione particolare: già perché quella Lazio romantica era solita festeggiare, il 20 di ogni luglio, i compleanni di suoi tre alfieri, diversi per funzioni ma tutti importanti: Lenzini, Trippanera e proprio Bob. Era in panchina, Bob, nella primavera dell’80, quando mezza Lazio venne arrestata nell’ambito del calcio-scommesse. Lenzini accusò, reduce da Pescara, un malore, sorpreso dall’evolversi crudele degli eventi. Lui che, in quei ragazzi, credeva ciecamente. Ma gli schiaffi del destino erano già cominciati da un pezzo: la cessione di Chinaglia ai Cosmos (per 650 milioni delle vecchie lire) fu la prima, cocente delusione. Le fini ingiuste, nell’arco di quaranta, miserrimi giorni, di Maestrelli e Re Cecconi acuirono il senso di provvisorietà. La retrocessione a tavolino nell’80 chiuse praticamente il cerchio. Lenzini iniziò ad indebitarsi pesantemente per fare fronte all’emorragia finanziaria del club, ricostruendo la squadra, tentando una immediata risalita.
Non ce la fece perché i creditori diventarono tanti, al pari delle cambiali inevase, e le sue imprese subirono un crollo negli affari. Stanco, provato, mollò la sua creatura. Prima al fratello Aldo. Poi il cognome Lenzini si distaccò completamente dalla Lazio: nell’81 il pacchetto azionario passò nelle mani di Gian Casoni.
Gradualmente si staccò da quel mondo. Malato, si trasferì a casa di Silvestro, uno dei figli, che allora viveva a Grotta Perfetta. Una mattina si svegliò e chiese un caffè. Non fecero in tempo a portargli la tazzina che aveva già raggiunto Tommaso e Cecco, in quello spicchio di cielo che è più celeste di altri. Era l’alba di una domenica, nel febbraio dell’87, in cui il campionato era fermo. Quasi un omaggio silenzioso per il Presidente, l’uomo del primo scudetto, custode di una Lazio romantica, semplice, vicina alla gente. In una parola, irripetibile.